I più
attempati ricorderanno, quei periodi della loro adolescenza, quando in quelle
freddose serate d’inverno, quando ancora non esisteva la televisione, insieme
con il resto della famiglia ci si riuniva intorno agli antichi
bracieri[1],
ricolmi di carbone ardente. Ed è lì che i nostri nonni, accovacciati sulla loro
sedia preferita e le mani protese verso il calore emanato dal carbone ardente che
bruciava lentamente, per smorzare la monotonia d’interminabili silenzi,
iniziavano a raccontare le loro favole più belle. Sono delle meravigliose novelle
senza età, mai vergate, vissute ai margini della storia umana e, sopravvissute
al tempo, rigenerandosi, di volta in volta, a nuova vita nello stesso modo di come
la mitologica fenice rinasceva dalle sue ceneri. La storia iniziava sempre,
quando ci si accostava soprattutto attorno alla famosa conca[2].
Permettetemi
di soffermarmi su quest’utilissimo utensile, adoperato fino a quando, come
tante altre cose, è stato soppiantato dai nuovi e moderni “mostri” tecnologici.
Eppure fino a qualche decennio addietro questi bracieri avevano una primaria
funzione, tanto che ogni famiglia, ricca o povera che fosse, ne possedeva
almeno uno. Puliti e lucidati quotidianamente, soprattutto nei mesi più freddi,
quasi a rinnovare quell’antico rituale pagano, che per millenni, all’interno
degli antichi templi, ha custodito il sacro
fuoco[3] degli
dèi. Il tempo a volte non ha memoria così con il trascorrere dei millenni il suo
significato simbolico e religioso andò perduto, sostituito da una pratica più pagana:
riscaldare le abitazioni nei mesi invernali, sostituendo l’olio sacro degli dèi
con del comune carbone. Le case si riempirono di fumi acri emanati dalla lenta combustione
del carbone che in egual tempo le riscaldava.
In
Sicilia e in gran parte del sud della penisola la stragrande maggioranza delle
massaie viveva la propria quotidianità in funzione di questi antichi utensili e,
ancora oggi, alcuni anziani dell’entroterra siciliano lo utilizzano per
riscaldarsi. E quanti dopo una faticosa e freddolosa giornata di duro lavoro rientravano
tra le mura del focolare domestico, il calore emanato da quel braciere
ravvivava gli animi. Questo è quanto accadeva fino a qualche decennio addietro,
ma nell’antichità, alle origini, cioè quando l’uomo scoprì per la prima volta il
fuoco e ne comprese l’utilizzo e i benefici che ne poteva trarre, il primo
pensiero molto probabilmente fu di custodire quel meraviglioso dono degli dèi.
In esso si cela la conoscenza di un’antica sapienza frutto di elaborati rituali
magici ed esoterici. La sacralità del fuoco nelle varie epoche storiche ha
sempre avuto un ruolo decisivo nei culti religiosi, come importante era il suo
contenitore.
Inizialmente
non fu certo di facile trasporto, fu durante la tarda età della pietra e, dopo
che gli antichi gruppi familiari iniziarono a formare i primi insediamenti
fissi che le prime forme di bracieri in pietra fecero la loro comparsa. La loro
realizzazione probabilmente sarebbe avvenuta incavando delle particolari pietre
di natura calcarea, utilizzando alcuni strumenti primitivi d’allora, fatti di
ossidiana[4].
Di
conseguenza e alla luce dei fatti conclamati, il braciere, questo semplice
recipiente che custodiva il “sacro fuoco”, dovrebbe risalire al primissimo periodo
dell’età del bronzo. Con la nascita delle prime civiltà e l’utilizzo dei
metalli, questo contenitore in pietra calcarea, fu soppiantato da quello in
metallo, i cui contorni venivano decorati con ornamenti che richiamavano gli
auspici della divinità cui il braciere era posto. I custodi del “fuoco sacro”
erano i sacerdoti, gli antichi maghi, detentori dei segreti della natura con la
quale interagiva, che tra le tante occupazioni avevano anche il supremo compito
di alimentare quotidianamente quell’antica fiamma affinché ardesse giorno e
notte. E affinché la fiamma fosse sempre candida agli occhi degli dèi, i bracieri dovevano dovevano essere puliti costantemente e con devozione, perché la fiamma nel suo ardere anneriva e
incrostava i bordi. Ma esso non serviva solo nelle quotidiane funzioni pastorali dei
templi o per illuminare gli ambienti, la sua funzione era anche di riscaldare
le case, sia dei ricchi sia dei poveri, nei mesi più freddi. Fu la condizione sociale
delle famiglie più umili, che il braciere ebbe un ruolo quasi mistico. E’ in giornate
particolarmente fredde, che il calore da esso emanato idealmente richiamava a
se i suoi figli, il cui abbraccio lì induceva a rievocare il fato di un tempo
passato.
Ci si riuniva intorno alla conca,
dopo il fugace pasto serale, per riscaldarsi e trascorrere ancora qualche ora
insieme prima di andare a dormire. La famiglia riunita, il tenue bagliore delle
lampade e gli odori del carbone ardente, che lentamente si consumava,
risvegliavano, magicamente, antichi ricordi e, a volte, dopo aver esaurito gli
argomenti della giornata, il nonno o il papà per spezzare la noia e gli
interminabili silenzi iniziavano a raccontare antiche favole. Una ricostruzione
di fatti ed eventi così dettagliata che per alcune ore catturavano la fantasia
di grandi e piccini. Era un continuo susseguirsi di luoghi e panorami, a volte immaginari
e descritti con leggiadra maestria inebriando i cuori di chi ascoltava. Tutta
la famiglia, in men che non si dica, pendeva dalle labbra del narratore, ma
soprattutto dai tumultuosi eventi che rendevano la trama fitta di misteri, i
cui personaggi, buoni e cattivi, magicamente si animavano. E più s’infittiva la
trama più ci si sentiva coinvolti, tanto da arrabbiarci se il nostro paladino
preferito subiva un torto, o si esultava, quando il bene prevaleva sul male. Erano
storie appassionanti, antiche e febbrili, che riempivano i cuori di coraggio,
altruismo e fede, ma soprattutto, ci permettevano di affrontare le difficoltà
della vita con più armonia.
Oggi tutto questo è andato perduto; nuove forme di
comunicazione hanno soppiantato quel arcano e sano modo di comunicare, i cui
celati insegnamenti preparavano i giovani al grande gioco della vita. Ai giorni nostri, invece, le nuove generazioni Hi-Tech
non hanno più il tempo e la voglia d’ascoltare. Il consumismo industriale è
riuscito a estirpare la più antica forma di comunicazione. Essa era l’unico
legame con il passato, con le radici dei nostri avi. Se oggi siamo quelli che
siamo, il merito non è soltanto nostro, in ognuno di noi si celano millenni di
conoscenza acquisita dai nostri progenitori che ci è stata tramandata da una
generazione all’altra, che si è assopita per fare spazio a l’irruento progresso
industriale. Così, oggi, per trascorrere il tempo, gli anziani non trovando più
chi li ascolta o a chi donare la loro saggezza e conoscenza accumulata durante
tutta una vita e, per non perdere l’unico legame che ormai gli rimane, con le
proprie origini, continuano a raccontare quest’antica sapienza. Gli unici
spettatori sono altri anziani, distratti e stanchi, mentre i loro cuori, che
una volta si riempivano di allegria, ora sono tristi, perché, accanto a loro,
non c’è più nessuno cui offrire il grande dono della conoscenza antica.
Copyright Angelo Virgillito
[1] Il braciere è un antico catino in rame di
forma rotonda, aveva un diametro di circa 50 centimetri e
un’altezza di circa 15
centimetri , sul bordo esterno di forma convessa era
impreziosito da due manici magistralmente lavorati, anch’essi in rame. Questo
braciere era di solito adagiato sul porta-braciere, una struttura in legno
circolare, con un foro in mezzo, pari al doppio del diametro del braciere e
rialzata da terra per una ventina di centimetri circa. La preparazione avveniva
di solito prima del tramonto ed era riempito di carbone o di carbonella
(termine usato per differenziare il carbone prodotto da grossi tronchi di legno
con il carbone prodotto dalle bucce delle mandorle, che in dialetto siciliano
era chiamata “ scorcia”). Una volta riempito, il cui ribocco superava
abbondantemente il bordo superiore, il suo contenuto era acceso e fatta
ventilare per una decina di minuti o sui davanzali delle case, o nei cortili o
per chi era più fortunato sui balconi.
[2] Conca è una forma dialettale per
identificare il braciere, probabilmente di radice araba, da non confondersi con
la “Concha” – termine latino che stava a indicare il <catino> per lavarsi
i piedi.
[3] Il sacro fuoco
è una delle tante espressioni comuni per indicare una sacralità del fuoco,
sia per ragioni religiose, sia per mera simbologia rituale. Il culto del
fuoco nelle culture indoeuropee in epoca storica è fatto risalire a un'antica
concezione religiosa naturalista degli indoeuropei, i quali sarebbero un'attestazione
del dio vedico Agnis e del culto del fuoco greco e romano. L'importanza del
fuoco nei culti greci è attestata nella tradizione, ripresa da Virgilio
nell'Eneide che dice che Enea aveva portato via da Troia il fuoco sacro. La
divinità che impersonava tale fuoco oggetto di culto era Estia. Il Sacro
Fuoco era la fiamma perpetua che ardeva nel tempio di Vesta, mentre alle
vestali, vergini consacrate alla dèa, mantenevano sempre acceso e nella
malaugurata ipotesi che esso si spegnesse la punizione, era perdita della
verginità e la successiva condanna a morte. Poiché le vestali erano
inviolabili, la morte non era data da mano umana, ma mediante segregazione in
un luogo sotterraneo. Esso fu spento nel 391 d.C., quando l'imperatore romano
Teodosio, dopo l'editto di Tessalonica del 390 d.C., impedì la pratica di riti
pagani e impose il rito niceneo come unica religione dell'impero.
[4] L'ossidiana
è un vetro vulcanico la cui formazione è dovuta al rapido raffreddamento delle
lave. All'interno dei vulcani le temperature e le pressioni sono così elevate
da fondere i silicati dando origine alla lava. La lava a contatto dell'aria, si
raffredda molto rapidamente dando origine all'ossidiana. Il veloce
raffreddamento non consente agli atomi di ordinarsi per formare un cristallo.
L'ossidiana è un vetro naturale, del tutto simile a quello di produzione umana.
È utilizzata per fabbricare collane preziose e punte delle armi. I principali
centri di estrazione delle ossidiane nel bacino del Mar Mediterraneo sono: le
isole di Lipari, Pantelleria e della Sardegna (Massiccio del Monte Acri).
L'ossidiana si presenta con grande varietà di colori, dovuti alle impurezze
presenti al suo interno, e alle condizioni vulcaniche specifiche nelle quali si
forma. L'ossidiana del Monte Arci, nera traslucida, è di tipo riolitico; si
raccoglie prevalentemente in grossi ciottoli (arnioni), sia in
"giacimenti" a cielo aperto che nei greti dei torrenti. Da non
dimenticare l'isola di Palmarola (isole ponziane), molto frequentata nel Neolitico
e nell'Eneolitico da tribù dedite al commercio di questa materia prima, che
introducevano nel continente. Sono stati ritrovati resti di ceramica e alcuni
oggetti di ossidiana lavorati di età eneolitica. Plinio la chiamò lapis
obsianus o obsidianus in onore di un certo Obsius o Obsidius, che
citò la pietra per primo in alcune zone dell'Etiopia. Alcuni ritrovamenti fanno
ipotizzare la conoscenza della pietra in epoca antica: gli antichi egizi
usavano l'ossidiana per fabbricare scarabei e sigilli mentre in America centrale
veniva utilizzato da civiltà precolombiane.