venerdì 7 agosto 2015

LA LEGGENDA DELLE CERASTE ALATE

La leggenda delle ceraste alate

Questo è quanto raccontano gli anziani di questa leggenda legata al gonfalone di Paternò, in provincia di Catania, e al disegno che in seguito, fu riprodotto sul vessillo comunale. Quando, il Gran Conte Ruggero, nel 1073, fece riadattare la fortezza paternese, da una caverna vicina al fabbricato, al rumore dei mastri e dei fabbro-ferrai, improvvisamente uscirono, alzandosi in volo, due possenti ceraste (due serpenti alati). Una fu subito uccisa da un arciere intraprendente, l'altra invece riuscì a sfuggire alle mortali frecce normanne e volò fin quasi l'antico borgo di Lentini. L'episodio, portò il gran conte Ruggero, alla determinazione di costituire il territorio paternese fin dove aveva volato la seconda cerasta: simbolo di forza e prestigio.

Un riproduzione artistica dell'antico gonfalone della città di Paternò, in provincia di Catania, Sicilia

Come tutte le leggende, spesso i racconti avventurosi e i fatti storici, per una serie di strane e inspiegabili circostanze, s’intrecciano gli uni con gli altri. Infatti, l'altra fiaba, raccontata dagli anziani paternesi, è legata a un ragazzo, il cui nome si è perso nella notte dei tempi. Ed era il tempo in cui il gran conte Ruggero viveva nel castello di Paternò, dove la vita d’ogni giorno scorreva tra la beatitudine dei suoi abitanti e il trambusto degli operai. Gli arabi erano stati sconfitti, anche se la minaccia mussulmana era ancora presente sul versante occidentale dell’isola. Ruggero, da astuto stratega, comprese che per fortificare i territori conquistati, avrebbe dovuto consolidare tutti gli avamposti militari. L’ordine primario fu la fortificazione del castello seguita dalla demolizione sistematica di tutte le mosche islamiche presenti sul territorio e sostituirle con chiese cristiane.  Un giorno, però, la tranquillità di corte fu offuscata da una sconvolgente notizia: una giovane e bella cortigiana di nome Adelaide, appartenente a una delle famiglie di alto rango, aveva partorito, sotto effige normanna, un bastardello. Un bimbo, nato da una segreta relazione, che la bella Adelaide aveva avuto con un giovane servitore del borgo paternese. Un amore scaturito, si disse, tra le possenti mura del castello, dove il giovane plebeo prestava servizio.

Niente di più oltraggioso e disonorevole poteva verificarsi in un casato come quello degli Altavilla: che una cortigiana di rango elevato avesse una relazione con un povero servo della plebe. E, ancora più grave, si presentava la situazione per la giovane meretrice, la quale nonostante l'immorale relazione con il giovane servo, aveva avuto anche l'impudenza di mettere al mondo un piccolo bastardello. Adelaide per oltre un anno, era riuscita a eludere e a nascondere sia la gravidanza sia il piccolo infante dopo averlo partorito. Le sue stesse ancelle, le più fidate erano ignare del suo grande e imperituro amore. E, non gli fu difficile nascondere il segreto, che oramai da diversi mesi lei portava nel suo grembo. E venne il giorno della nascita. Adelaide, quella mattina, con una scusa, si allontanò dal castello e si diresse in un vecchio casolare di campagna. Ad attenderla, vi erano una fidata levatrice e il suo impavido amore, che insieme fecero figliare la giovane cortigiana, in tutta tranquillità. E da lì a poco nacque un bel bambino biondo e dai lineamenti normanni, mentre il dolore del parto si tramutò in gloriosa gioia. Decisero di attendere la notte per dirigersi sulla collina. E l’oscurità e gli imponenti muri di cinta del castello, gli avrebbero facilitato il rientro.

 
nella foto il dongione normanno di Paternò, in provincia di Catania. Costruzione di epoca Arabo-Normanna XI secolo.

Adelaide, nonostante la sua vitalità, fu costretta a sedersi su uno spuntone di roccia, il parto l’aveva e non poco, indebolita. Spinti dal timore di essere scorti, magari da qualche guardia, ripresero subito dopo il cammino. Infine giunsero nei pressi di un dirupo, sul versante meridionale del castello, dove un folto cespuglio s’inerpicava lungo il muro di cinta. Adelaide spostò alcuni rami che aprirono una piccola entrata; un cunicolo che si congiungeva con le segrete del castello.

Quel passaggio avrebbe permesso alla neo-mamma e al suo figlioletto, di introdursi all'interno delle mura senza essere notata da occhi indiscreti. Adelaide, che per tutto il cammino aveva affidato il piccolo alla levatrice, ora lo stringeva a se con una dolcezza che soltanto una madre riesce a donare al proprio figlio. Tutto si svolse tranquillamente; Adelaide giunse, senza incontrare ostacoli, nelle sue stanze private, mentre il giovane amante e la fidata levatrice ritornarono alle proprie abitazioni: il primo felice per la nascita del figlio, la seconda contenta per aver fatto nascere un altro bambino. Ma, con la nascita di quel bimbo, la situazione divenne particolarmente difficile da controllare, per la giovane genitrice. Adelaide non avrebbe potuto nascondere, per molto tempo, il frutto del suo segreto amore, anche se avesse voluto farlo.

E così, una mattina, una delle ancelle di compagnia sorprese Adelaide con il neonato, che stringeva al suo seno, dondolandolo con affettuosa dolcezza. Adelaide vistasi scoperta pregò con le lacrime agli occhi, la giovane dama di non dire nulla. Per assicurarsi e rassicurarsi che avrebbe mantenuto il segreto, aprì, con l’impeto di una rabbia nascosta, uno scrigno ricolmo di monete d'oro. Affondò le delicate mani tra quelle monete e ne estrasse un bel po' e le donò alla ragazza, che senza battere ciglio, le accettò di buon grado. La gioia della nascita rinvigorì Adelaide e la sua irrefrenabile allegria mise tutti di buon umore.

Lo stesso conte Ruggero, sospettoso di nascita, non si accorse di nulla, tutt’altro. L'allegria della giovane cortigiana ravvivò le giornate al castello. Frattanto la dolce Adelaide, accudiva con amore quel bimbo paffutello, che non doveva condividere con nessuno se non con il suo grande amore. E, quando l'occasione si presentava, incontrava di gran segreto il suo giovane amante, così come i due avevano sempre fatto in passato. Tuttavia l'ansia della giovane mamma con il trascorrere dei giorni, cresceva. Il timore di essere scoperta con il ragazzino la rattristava. Spesso ormai, a ogni più piccolo rumore sussultava e ansimando si precipitava a nascondere, alla vista di occhi indiscreti, il figlio suo.
Il trascorrere dei giorni e del tempo non destava sospetti alla corte di Ruggero. Tutto sembrava tranquillo, perché nessuno sospettava di niente e di nulla, ma fino a quando?

 
Un riproduzione artistica dell'epoca del fratelli Roberto D'Altavilla, detto "Il Guiscardo" e del di lui fratello il Gran Conte Ruggero.

 Quell’ancella, che aveva un'indole perversa e malvagia, intuì che da quella turbinosa vicenda avrebbe potuto ricavarci molto più di quanto, la stessa Adelaide le aveva regalato. Così, dopo diversi giorni, dopo aver ideato un diabolico piano, la maligna ancella, si recò nuovamente dalla bella Adelaide, alla quale spudoratamente chiese, con fare cinico, altri denari d'oro. Se voleva che quel suo segreto, restasse tale. Adelaide, che conosceva bene la punizione, che sarebbe stata inflitta, sia a lei, sia al figlio suo, se del fatto ne avrebbe saputo il gran conte Ruggero (che era da tutti considerato un puritano). Alla donna non rimase altro da fare che piegarsi al vile ricatto. Così, ancora una volta, la cortigiana fu costretta, ingoiando l'amarezza e la perversione di quell’ingorda donnaccia, a pagare il silenzio del suo incauto amore. Ma l'ancella avida, com'era anche di se stessa, a ogni nuovo giorno, chiedeva sempre più soldi, fino a quando una mattina, Adelaide, stanca di quell’oltraggioso e vile ricatto, rifiutò di elargirle altre somme di denaro. E la perfida ancella, sopraffatta dall'odio, dalla gelosia e dalla vendetta, quella stessa mattina mise in atto il suo diabolico piano, che oramai, rimuginava da giorni nella sua distorta testolina. Così senza perdere tempo e in men che non si dica, della faccenda, l’avida ancella, informò tutti i servi e i paggi, le dame e cavalieri del borgo. Lei raccontò, non certo come si svolsero i fatti, ma a modo suo facendo leva sulla superstizione, che a quei tempi dettava le leggi della sopravvivenza umana.

Raccontò, infatti, di un giovane servo che fu ammaliato e sedotto dalla bella Adelaide, la quale aveva partorito un mostro. Un bastardello, il quale, secondo quanto avevano predetto le stelle, sarebbe stato la rovina del casato degli Altavilla. Naturalmente non era vero nulla, se non il fatto che i due giovani erano colpevoli di una pura e sincera complicità, scaturita da un profondo e reciproco amore. La notizia giunse anche alle orecchie del gran ciambellano di corte, il quale rabbioso e carico d'ira, volle appurare i fatti. E chi meglio della governante del gran conte, avrebbe potuto svolgere quella delicata inchiesta, anche perché oltre a conoscere tutti i dignitari al seguito di Ruggero, era una gran pettegola e d’ognuno, conosceva i più intimi pensieri. La governante, infatti, in breve tempo, seppe della faccenda e fin nei minimi particolari, tuttavia, volle accertarsi di persona, che quanto da lei saputo, corrispondeva a verità. Così si diresse, spedita, nelle stanze di Adelaide e, quando, giunse nella stanza e vide il ragazzo, il suo cuore s’intenerì, ma a nulla valsero le preghiere e le suppliche della giovane madre, di non informare il Gran Conte Ruggero del fatto. Ormai, non c'era più nulla da fare: la notizia era di dominio pubblico e il gran ciambellano, anche se con molta riluttanza, fu costretto, suo malgrado, a informare il Gran Conte Ruggero degli ultimi eventi, catastrofici, del castello. Tutto stava procedendo cosi come aveva previsto la famelica ancella. Ora, tutto precipitava per la bella Adelaide, che a ogni minuto si sentiva sempre più mancare il terreno sotto i piedi. A nulla valse l'esperienza del gran ciambellano del castello, il quale con molto tatto e diplomazia, ma soprattutto con rammarico, comunicò la notizia a Ruggero, confidando in Dio e nella clemenza del conte. Fu tutto inutile!

La reazione del Gran Conte fu rabbiosa e il malcapitato ciambellano fu il primo a subire la sua implacabile ira. La notizia fu inaspettata e rovinosa. Il suo unico pensiero fu per l'oltraggio subito, sia alla sua persona, sia al Casato, e più ci pensava, più si arrabbiava, fino a quando si mise a urlare e imprecare, come fosse colto da improvvisa pazzia. Mai urla strazianti furono udite dall'alto di quella torre, se non quelle di Ruggero il normanno, in quella triste mattina. La rabbia lo fece inferocire, gli infiammò gli occhi di odio, mentre le sue mani si agitavano in un vortice di gesti senza senso. Ruggero urlava e imprecava dando sfogo a tutta la sua ira. Poi, improvvisamente, ritornò in se, s’inginocchiò e iniziò a pregare a voce alta.

Mai affronto più disonorevole fu scritto quel giorno, nelle pagine della storia del casato degli Altavilla, che si ricordi a memoria d'uomo. Dopo i primi momenti di funesta, fibrillante e angosciante rabbia, Ruggero, improvvisamente, si zittì e un clima di apparente calma si diffuse tra le pareti del salone grande. Gli stessi cavalieri e alcune dame presenti in quel momento, che ancora avevano gli occhi sbarrati dall'incredulità e la bocca ancora aperta per lo spavento, rimasero pietrificati dell'improvviso e dell’imprevedibile impeto d'ira del Gran conte.

Mai a loro memoria, si ricordavano di una tale iraconda sfuriata. Ruggero stesso si meravigliò di cosi tanta manifesta ira, mentre il suo viso continuava a contorcersi dalla collera, si sforzava in ogni modo di non lasciarsi andare con un altro impeto d'ira. Cercò di scacciare i mille cattivi pensieri che si affollavano nella sua turbinosa mente. Si ripeteva che la collera è una cattiva consigliera e sorella del demonio, e, che in futuro nulla e nessuno avrebbe più accesso la sua ira e offuscato la sua mente.

A un tratto, avvicinandosi a un giovane cavaliere e, con dire severo, ordinò che fosse fatta chiamare la sua fedele governante. Frattanto, per tutto il castello, tuonavano ancora, le iraconde parole di Ruggero, mentre un leggero mormorio, che commentava il funesto evento, si spandeva da un piano all'altro e persino tra le milizie della piazza d'armi antistante al castello. La governante, messa al corrente del fatto, poco dopo, tutta tremolante, si presentò al cospetto del gran conte Ruggero, che gli ordinò di strappare quel bastardello dalle affettuose braccia dell'adultera e scaraventarlo con forza, dalle mura del castello. Questo significava condannare a morte quel ragazzo senza peccato, osservò con voce sottomessa, ma il Gran Conte fu irremovibile.  E, se la caduta non avrebbe prodotto la morte, quel bastardello doveva essere passato per la spada. E, poi, aggiunse che dopo averne costatata la morte, quel corpo esanime fosse stato, seppellito in terra sacrilega. L'anziana donna si strinse nelle spalle e annuì, senza rispondere. Ma indugiava a uscire, forse attendeva che il gran conte Ruggero si sarebbe ravveduto o che qualche cortigiana o cavaliere, presente in quel momento nel salone, intervenisse in favore di quel piccolo sventurato bebè.

Con lo sguardo, lei scrutò. Cercò in ogni volto un segnale, un qualcosa, anche un lieve dissenso, che l'avrebbe permesso, di far desistere il Gran Conte, ma nei visi di quelle dame e cavalieri, in quel momento, lesse solo paura e sgomento. Nessuno, infatti, osò contrariare l'esasperazione del conte e, per non incorrere in qualche disonorevole punizione, unanime fu il verdetto di colpevolezza, anche se nei loro cuori avrebbero voluto salvarlo. Furono quindi, tutti d'accordo nel decretare l'uccisione dell'infante. A questo punto Ruggero, tanta era ancora la sua stizza che l'indugiare della governante non fece altro che accrescerla maggiormente, alla fine tuonò:

Corri! E uccidilo!

La governante col capo chino e, con gli occhi pieni di lacrime, senza temporeggiare oltre, si allontanò come un cane bastonato. Con il cuore infranto raggiunse ed entrò nella stanza d’Adelaide e in silenzio si diresse verso il ragazzo. Con una mano afferrò il marmocchio, con l'altra si asciugò gli occhi, che traboccavano di lacrime, mentre le urla strazianti della madre, che aveva intuito il pericolo, ora, riecheggiavano per le stanze del dongione.

La vecchia nutrice lo avvolse in una coperta e uscita dalla stanza di Adelaide, si diresse su per le scale, che l'avrebbe portata in cima alla torre. Ma a ogni gradino che saliva e ad ogni passo che faceva il fiato s’ingrossava, mentre il cuore sembrava che le facesse scoppiare il petto e la testa. Mille pensieri si affollavano nella mente, mentre il corpo era attraversato da brividi di freddo che le intorpidivano tutte le membra. Fino a quando, ormai giunta in prossimità dell'ultima rampa di scale, improvvisamente si arrestò, si guardò intorno e dopo aver preso una rapida decisione, ritornò sui suoi passi.

La vecchia nutrice nel ripercorrere la stessa strada questa volta a ritroso, avvertì un senso di leggerezza. A ogni gradino, infatti, che scendeva e ad ogni passo che faceva, si sentiva più sciolta, più serena, e quel peso tanto opprimente ora, diminuiva. Quella sensazione che prima la soffocava, si trasformò in euforia. Era come se il cuore le dicesse che lo spettro della morte se ne era allontanato da quel ragazzo. Si sentiva quasi felice della decisione che aveva preso, non curante di ciò che le sarebbe potuto capitare disobbedendo a un preciso ordine del Gran Conte Ruggero. Entrò frettolosamente nelle stanze d’Adelaide, che straziata dal dolore era riversa in ginocchio, accanto ad una sedia e di fronte ad un’immagine della Madonna, con le mani giunte, gli occhi arrossati e pieni di lacrime.

Il suo lamento era un’invocazione d’aiuto alla Madre celeste. La nutrice, estrasse dalla tasca un fazzoletto e lo diede alla giovane madre, mentre la aiutava ad alzarsi da terra. Aveva pianto, aveva pregato e il dolore in poco tempo gli aveva rubato gli anni, ma capì quando guardò il viso sorridente della governante. Le appassionanti preghiere rivolte da Adelaide alla Madre degli uomini, furono ascoltate.

Quando, Adelaide rivide la vecchia governante, con il piccolo, ancora in vita, tanta fu la gioia e la felicità, che cadde a terra priva di sensi. Quando si riprese, la vecchia nutrice del Conte, la informò del suo frettoloso piano e di come, da lì a poco, lo avrebbe messo in atto per salvare quel ragazzo. Un piano non certo, privo di rischi. Rischi che la vecchia nutrice era disposta ad affrontare anche a costo della propria vita. Perché, pensava, che nessuno abbia il diritto di condannare o di uccidere su questa terra un piccolo innocente. Questo compito, lei ripeteva, è di esclusiva competenza del Signore dei cieli. La vita ci è stata donata dal Padre di tutte le cose e niente e nessuno può arrogarsi il diritto di toglierla attraverso la morte.

Quella strana gioia, che riempiva il cuore della vecchia nutrice, la faceva sentire invulnerabile. Quello strano modo di agire contro il suo signore, cui aveva giurato eterna fedeltà, gli sembrava quasi naturale.

Lo conosceva bene, lei, il Gran Conte che mai si era adirato contro di lei, anzi, in passato spesso, si era recato nelle stanze della sua governante, alla quale aveva da sempre confidato preoccupazioni, paure e perplessità, sul modo di agire e, spesso, sul come farlo o come punire e aveva condiviso anche le poche gioie che la vita elargisce con molta parsimonia. Una fedele compagna, una seconda madre da cui trarre conforto. Trasgredire a quell'ordine la faceva sentire un po' in colpa: tradire la fiducia di un uomo magnanimo, buono e generoso è come togliere un gelato a un bambino. I pensieri della vecchia nutrice svanirono dopo essersi chinata per soccorrere quella madre sventurata. Adagiò il bambino sul letto e aiutò Adelaide a riprendersi, gli spiegò ciò che stava per compiere, per salvare il bambino a dispetto dell'ordine di Ruggero che lo avrebbe voluto morto.

Adelaide non sapeva più cosa pensare, e, non aveva ben chiaro se ridere o piangere dalla gioia, se abbracciarla o semplicemente ringraziarla. Impacciata, gli afferrò le mani e chinò il capo. Anche la vecchia nutrice avvertì un nodo alla gola e senza parlare riavvolse il piccolo bambino nella coperta e con fare circospetto, si diresse fuori del castello, lungo quel corridoio segreto. Tuttavia, dagli alti muri di cinta (nella foto i ruderi dell’antica torretta d’avvistamento prospiciente la valle del Simeto), una guardia, insospettita dai movimenti molto sibillini e circospetti della governante, che non era certamente un’esperta in tattiche di mimetizzazione, la seguì fin fuori delle mura. La nutrice non si accorse di essere stata seguita. Con fare furtivo si diresse in tutta tranquillità, verso i campi di sterpaglie e ivi giunta, con lo sguardo, si accertò che nei dintorni non vi fosse nessuno. Cercò il cespuglio più folto e dopo averlo trovato, vi pose, ben nascondendolo alla vista degli uomini e degli animali, il bambino. Lo ricoprì e subito dopo diede un'ultima occhiata tutto intorno. Per rassicurarsi, poi, ritornò al castello, facendo bene attenzione a non essere notata.

Assorta nei suoi pensieri, mentre si abbarbicava su per il pianoro, l'anziana nutrice, mormorava tra se e se, che appena fosse calata la notte sarebbe ritornata a riprendere il bambino. Poi, con l'aiuto dell'oscurità si sarebbe diretta in paese, dove una volta lì giunta, lo avrebbe affidato a una delle tante famiglie del borgo, affinché lo potessero crescere nell'anonimato. Intanto la guardia, che abilmente aveva seguito la donna senza farsi scoprire, giunse in quel cespuglio, dove giaceva, nascosto, lo strano fagotto.  Si avvicinò al cespuglio, si fece largo tra i folti rami, prese quella coperta attorcigliata e la svoltò. Lo stupore misto a incredulità disorientò quell’intrepido soldatino.

Cadde seduto in uno stato confusionale e non riusciva a staccare gli occhi da quella coperta che avvolgeva quell’infante. Quel soldatino rimase paralizzato da quella candida visione. Si guardò intorno, poi, dopo essersi ripreso e senza esitare oltre, lo riavvolse nella coperta. Lo ricoprì con degli arbusti secchi e si mise a correre in direzione del castello. Ivi giunto chiese un’udienza speciale al Gran Conte, il quale da lì a poco lo ricevette.

Col fiato smorzato dall’irrefrenabile corsa, l'intrepido soldatino, raccontò quanto era accaduto. Non l'avesse mai fatto. Ruggero che era ancora gonfio di sdegno, lo afferrò e lo scuoté. E lo scrollò così forte che il poveraccio cadde nuovamente seduto a terra, con lo sguardo pietrificato e senza rendersi conto di ciò che stava accadendo. Tanta fu la rabbia di Ruggero da non riuscire più a trattenersi dall'imprecare. Le sue urla, questa volta, fecero tremare persino le fondamenta del castello, mentre una rudimentale bombarda segnava il mezzo dì. Accasciatosi sulla poltrona regale, sospirò, quando il Gran ciambellano, con voce smorzata dalla paura, gli sussurrò che mezza giornata era trascorsa. L’asmatica frenesia dell'impavido soldatino e lo scoppio della bombarda, fece trepidare Ruggero che, per un momento, aveva pensato che si trattasse di un attacco da parte dei saraceni.

Ruggero, sforzandosi di sorridere, si rivolse al soldatino ringraziandolo e, per dimostrargli la sua gratitudine gli porse persino la mano, per aiutarlo ad alzarsi da quella scomoda posizione. Poi, rivolto al comandante delle guardie, con la serenità tipica di un uomo d'alto rango, ordinò di appiccare il fuoco alla sterpaglia e agli arbusti tutti in torno ai muri di cinta del castello. All'impavido soldatino invece, gli fu donato il corrispettivo di un giorno di paga per la fedeltà che egli aveva dimostrato nei confronti del casato degli Altavilla. Il fulmineo gesto aveva evitato che lignaggio normanno si macchiasse di un tale peccato, poiché la sopravvivenza di quel fanciullo, avrebbe disonorato l’immagine futura della stirpe degli Altavilla. Poi, aggiunse che egli stesso sarebbe stato presente, affinché i suoi ordini, questa volta, fossero eseguiti alla lettera.  E, cosi dicendo, si diresse sulla torretta meridionale del lungo muraglione, dove abbarbicata, si erge su un costone naturale di roccia lavica, dove ancora oggi, ciò che di lei è rimasto, testimonia quanta possanza e fierezza diedero i normanni a questi luoghi, le cui pietre invecchiate dal tempo raccontano in uno spazio infinito, al vento impetuoso, le loro vicende. E, Ruggero fu seguito dalle dame e dai cavalieri della corte, che a sua volta erano accompagnati dai paggi e servi del castello.

A guardarlo era molto somigliante a un tetro corteo, formatosi per un macabro rito di morte. Un atavico silenzio avvolse pian piano tutte le sale dell'imponente torrione, che furono avvinte da quel gelido oblio, preludio di un angoscioso supplizio, mentre il lungo corteo si avviava sulla cinta muraria. Il Gran Conte giunto che fu, in cima al piccolo avamposto fortificato fece chiamare, dalle sue milizie, i contadini, ai quali gli fu ordinato di appiccare il fuoco all'intera spianata sia da oriente, sia da occidente, e dal meridione. L'ordine fu imperituro e i contadini lo eseguirono senza fiatare, anche perché non conoscevano gli ultimi sviluppi sulla vicenda. In poco tempo l'intera radura che circondava le mura divenne un gran rogo. Le fiamme ormai si levavano alte nel pianoro, sprigionando uno sgradevole odore che si accompagnava al gran serpente arroventato, mentre il fumo annebbiava il paesaggio nella valle. Richiamati dalla coltre di fumo, che alta si levava nell'atmosfera, oscurando il cielo, altri abitanti impauriti accorsero fin sopra le mura. La popolazione inizialmente temette a un ennesimo tentativo guerresco da parte degli eserciti arabi, per la riconquista di quel territorio. Impallidirono, quando seppero della tremenda tragedia che stava per abbattersi su quel piccolo bastardello.

L'antica torretta di avvistamento da dove il Gran Conte Ruggero insieme con tutta la sua corte assistette al prodigio delle Ceraste alate.

Frattanto le fiamme, bramose e affamate, avvolgevano ogni cosa e si avvicinavano sempre più a quel cespuglio che custodiva il fanciullo. La furia divoratrice del fuoco, giunto che fu nei pressi di quel cantuccio, si arrestò improvvisamente. Dal nulla apparvero ai lati del cespuglio due gigantesche ceraste che distesero le loro maestose ali. Una volta spiegate le ali, che tanto erano grandi che, quasi oscurarono il sole, emisero il loro grido di guerra: uno stridulo rabbioso che pietrificò ogni cosa tutto intorno. Avevano un corpo affusolato e lungo, ingigantito dalla possanza delle ali, molto simili ai mitologici draghi delle tradizioni orientali.

Questa immagine ci riporta quasi inconsapevolmente, indietro nel tempo e in particolare in quell’epoca, dove sulla terra predominavano i possenti e giganteschi dinosauri. L'uomo, così come lo conosciamo oggi, ancora non era comparso, tuttavia, i suoi antenati avevano da poco lasciato gli alberi e incominciavano a camminare in posizione eretta. I dinosauri poi si estinsero, improvvisamente, ciò avvenne secondo alcune tesi moderne, a seguito di una collisione di un grosso meteorite con il nostro pianeta. Il meteorite a seguito dell’impatto, inclinò la rotazione dell'asse terrestre, provocando la glaciazione del globo, la quale fu consequenziale all'estinzione di questi enormi e magnifici animali, la cui bellezza, fierezza e possanza, ancora oggi, nei pochi resti ritrovati, ci spingono al rispetto per la natura e i suoi elementi. Gli ultimi scritti ritrovati nel lontano Medio Oriente, risalenti al 3.000 a.C. formulano un nuovo scenario alla nascita dell’uomo sulla Terra. Ciò non di meno quelle ceraste, ad esempio, avvistate, presumibilmente, intorno all’A.D. 1.100, erano simili ai dragoni alati del tempio del dio Adranòs, che a sua volta raffiguravano gli antichi serpenti, descritti dai Sumeri.

Tuttavia, fiere nel loro aspetto, le ceraste, emisero, quindi, un assordante grido di guerra, che non solo raggelò il sangue a ogni essere vivente nella valle, ma addirittura li pietrificò. Fu, come se i due dragoni alati avessero fatto uno strano sortilegio, che giunse d’improvviso e, con un batter d’ali, si diffuse per tutta la valle. Agli sprovveduti testimoni, ogni facoltà motoria fu preclusa. Restarono immobili come statue nelle loro posizioni. Non una parola, gli fu permesso di enunciare, né un gesto o un movimento gli fu concesso. Furono costretti, loro malgrado, a essere i testimoni oculari di quell'evento.

A nessun uomo o animale che sia, gli è stato concesso il diritto di togliere la vita a un suo simile, questo è prerogativa esclusiva di nostro Signore, Dio del cielo e della terra.

Questo è quanto fu dichiarato da un frate cappuccino, dopo il prodigioso evento. Nel frattempo. Sospesi in aria, uno di fronte all’altro e sopra quel folto cespuglio, i due draghi, con i loro sguardi minacciosi e le ali spiegate, iniziarono a scuotere l’aria. Crearono in breve tempo, un potente vortice, un turbine di vento, che spense l'inarrestabile rogo di fiamme e fuoco. In breve anche i fumi si diradarono e ciò che prima era una pira infernale, ora, un armonioso giorno si apprestava a proseguire il suo lento cammino, irradiato da un caldo sole. Il fuoco nell’irriverente bramosia, in pochi minuti aveva divorato l’intero pianoro, ma in prossimità di quel cespuglio fu dissipato e spento. Una forza più grande si era interposta, scaturita dalla compassione di Dio, il quale impedì al Conte di macchiarsi di un orrendo delitto.

A questo punto la leggenda stranamente, si frammenta in due versioni. La prima racconta che furono due angeli inviati da Dio che, con il loro soffio divino spensero il fuoco nella radura. La seconda racconta invece, che Dio inviò sempre due angeli, i quali sotto le mentite spoglie di due possenti draghi, impedirono all’orgoglioso Conte di compiere un atto dettato dal malefico signore del male. In ogni modo, qualunque cosa successe, angeli o draghi, il fuoco non raggiunse mai quel groviglio di rami e foglie, che custodivano un prezioso tesoro, in mezzo alla radura. Non una favilla o un granello di cenere riuscì ad avvicinarsi. Il piccolo pargolo, beato e ignaro del suo destino, fu salvato dalla provvidenziale presenza di quelle mistiche ceraste.

Sbigottiti, impauriti e ancora in preda al panico, improvvisamente, tutti i presenti si sentirono sciolti da quello strano incantesimo e, una volta resi liberi, incominciarono a fuggire, chi da una parte chi dall'altra, urlando e gridando. Molti di loro corsero fino ai piedi della gran croce, dove oggi si erge un'antica chiesa, e con struggente angoscia, penitenti pregarono. E pregarono con tale intensità che l’aria si riempì di mistica religiosità. La goffaggine religiosa di quelle genti temeva che quel castigo, mandato da Dio, si potesse abbattere su di loro e sulle loro case. Ruggero intanto si strofinava gli occhi, atterrito, mentre il rossore dal suo anziano aspetto pian piano assumeva una colorazione giallastra. Non riusciva neanche a muoversi per la paura e l'incredulità di ciò che sotto i suoi stanchi occhi stava accadendo. Una volta conclusa la loro missione, le possenti ceraste, così com’erano apparse, improvvisamente sparirono alla vista degli uomini. A causa della coltre di fumo che ancora albeggiava negli occhi dei presenti, intorpidendo la vista, nessuno notò o poté segnare da che parte, i due draghi, si diressero o se si alzarono in volo, oppure sprofondarono nella terra, per non essere mai più viste apparire, se non nei sogni della gente.

Abbiamo voluto raccontare questo meraviglioso racconto, perché carico di significati e indizi che, letti in un panorama simbolico, sono espressione di una cultura arcaica, memoria storica di un tempo, di quel tempo ancestrale, quando in Sicilia vivevano gli antichi dèi, che sono quegli stessi dèi descritti da quel popolo dalla “Testa nera”, nelle cronache semitiche. E’ pressoché difficile riuscire a leggere tra le righe di questo fantastico racconto, nel quale si cela una verità indiscutibile, secondo la quale e da un certo punto di vista, Ruggero, il suo seguito e gli abitanti del borgo, videro due divinità anunnake, nella fattispecie, due aquile, ma il nuovo panorama storico-religioso che si stava delineando, con la nuova sovranità normanna e il potere temporale della Chiesa di Roma, spinse le genti e lo stesso casato degli Altavilla a camuffare la realtà, anche se a memoria di questo episodio leggendario, al vessillo del borgo paternese fece aggiungere due serpenti alati protezione del torrione normanno. Il riferimento è implicito e il suo simbolismo apre la via a un’analisi che pone in connessione ogni aspetto della vita sociale, religiosa, politica e di potere messa in atto dopo la scacciata degli arabi dalla valle del Simeto. 

Gli indizi non si trovano soltanto nei racconti o cronache antiche, dormienti, li troviamo sparsi a crogiolarsi al Sole. Tuttavia se pur visibili, nel corso della storia dell’isola, i loro significati reconditi sono andati perduti. Noi possiamo soltanto dare un’interpretazione molto sommaria ciò non di meno e nonostante le deficienze linguistiche e fonetiche il quadro che emerge è molto plausibile alla teoria da me proposta, secondo la quale gli antichi dèi semitici, gli Anunna(ki), giunsero in questo Eden isolano, dove realizzarono oltre a delle strutture scientifiche, poste in superficie, non dobbiamo dimenticare che molti di loro erano scienziati, architetti e tecnici minerari, crearono delle basi anche nel sottosuolo terrestre.

Ci fecero a loro immagine e somiglianza, ma non dobbiamo dimenticare che venivano da un altro mondo, dove la gravità, la pressione atmosferica e la rivoluzione del proprio pianeta sull’eclittica, era del tutto differente dal nostro, di conseguenza per limitare i danni è plausibile pensare a strutture poste in luoghi dove questi parametri non fossero dannosi per la loro stessa sopravvivenza. D’altronde il dio Enki, lo scienziato che insieme con un gruppo di cinquanta esploratori giunse sul pianeta circa 450mila anni fa, aveva o avrebbe avuto la sua dimora nelle profondità marine del mare di Eritrea. 

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lunedì 20 luglio 2015

UN'ANTICA SAPIENZA PERDUTA

I più attempati ricorderanno, quei periodi della loro adolescenza, quando in quelle freddose serate d’inverno, quando ancora non esisteva la televisione, insieme con il resto della famiglia ci si riuniva intorno agli antichi bracieri[1], ricolmi di carbone ardente. Ed è lì che i nostri nonni, accovacciati sulla loro sedia preferita e le mani protese verso il calore emanato dal carbone ardente che bruciava lentamente, per smorzare la monotonia d’interminabili silenzi, iniziavano a raccontare le loro favole più belle. Sono delle meravigliose novelle senza età, mai vergate, vissute ai margini della storia umana e, sopravvissute al tempo, rigenerandosi, di volta in volta, a nuova vita nello stesso modo di come la mitologica fenice rinasceva dalle sue ceneri. La storia iniziava sempre, quando ci si accostava soprattutto attorno alla famosa conca[2].



Permettetemi di soffermarmi su quest’utilissimo utensile, adoperato fino a quando, come tante altre cose, è stato soppiantato dai nuovi e moderni “mostri” tecnologici. Eppure fino a qualche decennio addietro questi bracieri avevano una primaria funzione, tanto che ogni famiglia, ricca o povera che fosse, ne possedeva almeno uno. Puliti e lucidati quotidianamente, soprattutto nei mesi più freddi, quasi a rinnovare quell’antico rituale pagano, che per millenni, all’interno degli antichi templi, ha custodito il sacro fuoco[3] degli dèi. Il tempo a volte non ha memoria così con il trascorrere dei millenni il suo significato simbolico e religioso andò perduto, sostituito da una pratica più pagana: riscaldare le abitazioni nei mesi invernali, sostituendo l’olio sacro degli dèi con del comune carbone. Le case si riempirono di fumi acri emanati dalla lenta combustione del carbone che in egual tempo le riscaldava.
In Sicilia e in gran parte del sud della penisola la stragrande maggioranza delle massaie viveva la propria quotidianità in funzione di questi antichi utensili e, ancora oggi, alcuni anziani dell’entroterra siciliano lo utilizzano per riscaldarsi. E quanti dopo una faticosa e freddolosa giornata di duro lavoro rientravano tra le mura del focolare domestico, il calore emanato da quel braciere ravvivava gli animi. Questo è quanto accadeva fino a qualche decennio addietro, ma nell’antichità, alle origini, cioè quando l’uomo scoprì per la prima volta il fuoco e ne comprese l’utilizzo e i benefici che ne poteva trarre, il primo pensiero molto probabilmente fu di custodire quel meraviglioso dono degli dèi. In esso si cela la conoscenza di un’antica sapienza frutto di elaborati rituali magici ed esoterici. La sacralità del fuoco nelle varie epoche storiche ha sempre avuto un ruolo decisivo nei culti religiosi, come importante era il suo contenitore.  
Inizialmente non fu certo di facile trasporto, fu durante la tarda età della pietra e, dopo che gli antichi gruppi familiari iniziarono a formare i primi insediamenti fissi che le prime forme di bracieri in pietra fecero la loro comparsa. La loro realizzazione probabilmente sarebbe avvenuta incavando delle particolari pietre di natura calcarea, utilizzando alcuni strumenti primitivi d’allora, fatti di ossidiana[4].
Di conseguenza e alla luce dei fatti conclamati, il braciere, questo semplice recipiente che custodiva il “sacro fuoco”, dovrebbe risalire al primissimo periodo dell’età del bronzo. Con la nascita delle prime civiltà e l’utilizzo dei metalli, questo contenitore in pietra calcarea, fu soppiantato da quello in metallo, i cui contorni venivano decorati con ornamenti che richiamavano gli auspici della divinità cui il braciere era posto. I custodi del “fuoco sacro” erano i sacerdoti, gli antichi maghi, detentori dei segreti della natura con la quale interagiva, che tra le tante occupazioni avevano anche il supremo compito di alimentare quotidianamente quell’antica fiamma affinché ardesse giorno e notte. E affinché la fiamma fosse sempre candida agli occhi degli dèi, i bracieri dovevano dovevano essere puliti costantemente e con devozione, perché la fiamma nel suo ardere anneriva e incrostava i bordi. Ma esso non serviva solo nelle quotidiane funzioni pastorali dei templi o per illuminare gli ambienti, la sua funzione era anche di riscaldare le case, sia dei ricchi sia dei poveri, nei mesi più freddi. Fu la condizione sociale delle famiglie più umili, che il braciere ebbe un ruolo quasi mistico. E’ in giornate particolarmente fredde, che il calore da esso emanato idealmente richiamava a se i suoi figli, il cui abbraccio lì induceva a rievocare il fato di un tempo passato. 

Ci si riuniva intorno alla conca, dopo il fugace pasto serale, per riscaldarsi e trascorrere ancora qualche ora insieme prima di andare a dormire. La famiglia riunita, il tenue bagliore delle lampade e gli odori del carbone ardente, che lentamente si consumava, risvegliavano, magicamente, antichi ricordi e, a volte, dopo aver esaurito gli argomenti della giornata, il nonno o il papà per spezzare la noia e gli interminabili silenzi iniziavano a raccontare antiche favole. Una ricostruzione di fatti ed eventi così dettagliata che per alcune ore catturavano la fantasia di grandi e piccini. Era un continuo susseguirsi di luoghi e panorami, a volte immaginari e descritti con leggiadra maestria inebriando i cuori di chi ascoltava. Tutta la famiglia, in men che non si dica, pendeva dalle labbra del narratore, ma soprattutto dai tumultuosi eventi che rendevano la trama fitta di misteri, i cui personaggi, buoni e cattivi, magicamente si animavano. E più s’infittiva la trama più ci si sentiva coinvolti, tanto da arrabbiarci se il nostro paladino preferito subiva un torto, o si esultava, quando il bene prevaleva sul male. Erano storie appassionanti, antiche e febbrili, che riempivano i cuori di coraggio, altruismo e fede, ma soprattutto, ci permettevano di affrontare le difficoltà della vita con più armonia. 

Oggi tutto questo è andato perduto; nuove forme di comunicazione hanno soppiantato quel arcano e sano modo di comunicare, i cui celati insegnamenti preparavano i giovani al grande gioco della vita. Ai giorni nostri, invece, le nuove generazioni Hi-Tech non hanno più il tempo e la voglia d’ascoltare. Il consumismo industriale è riuscito a estirpare la più antica forma di comunicazione. Essa era l’unico legame con il passato, con le radici dei nostri avi. Se oggi siamo quelli che siamo, il merito non è soltanto nostro, in ognuno di noi si celano millenni di conoscenza acquisita dai nostri progenitori che ci è stata tramandata da una generazione all’altra, che si è assopita per fare spazio a l’irruento progresso industriale. Così, oggi, per trascorrere il tempo, gli anziani non trovando più chi li ascolta o a chi donare la loro saggezza e conoscenza accumulata durante tutta una vita e, per non perdere l’unico legame che ormai gli rimane, con le proprie origini, continuano a raccontare quest’antica sapienza. Gli unici spettatori sono altri anziani, distratti e stanchi, mentre i loro cuori, che una volta si riempivano di allegria, ora sono tristi, perché, accanto a loro, non c’è più nessuno cui offrire il grande dono della conoscenza antica.


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[1] Il braciere è un antico catino in rame di forma rotonda, aveva un diametro di circa 50 centimetri e un’altezza di circa 15 centimetri, sul bordo esterno di forma convessa era impreziosito da due manici magistralmente lavorati, anch’essi in rame. Questo braciere era di solito adagiato sul porta-braciere, una struttura in legno circolare, con un foro in mezzo, pari al doppio del diametro del braciere e rialzata da terra per una ventina di centimetri circa. La preparazione avveniva di solito prima del tramonto ed era riempito di carbone o di carbonella (termine usato per differenziare il carbone prodotto da grossi tronchi di legno con il carbone prodotto dalle bucce delle mandorle, che in dialetto siciliano era chiamata “ scorcia”). Una volta riempito, il cui ribocco superava abbondantemente il bordo superiore, il suo contenuto era acceso e fatta ventilare per una decina di minuti o sui davanzali delle case, o nei cortili o per chi era più fortunato sui balconi.
[2] Conca è una forma dialettale per identificare il braciere, probabilmente di radice araba, da non confondersi con la “Concha” – termine latino che stava a indicare il <catino> per lavarsi i piedi.
[3] Il sacro fuoco è una delle tante espressioni comuni per indicare una sacralità del fuoco, sia per ragioni religiose, sia per mera simbologia rituale. Il culto del fuoco nelle culture indoeuropee in epoca storica è fatto risalire a un'antica concezione religiosa naturalista degli indoeuropei, i quali sarebbero un'attestazione del dio vedico Agnis e del culto del fuoco greco e romano. L'importanza del fuoco nei culti greci è attestata nella tradizione, ripresa da Virgilio nell'Eneide che dice che Enea aveva portato via da Troia il fuoco sacro. La divinità che impersonava tale fuoco oggetto di culto era Estia. Il Sacro Fuoco era la fiamma perpetua che ardeva nel tempio di Vesta, mentre alle vestali, vergini consacrate alla dèa, mantenevano sempre acceso e nella malaugurata ipotesi che esso si spegnesse la punizione, era perdita della verginità e la successiva condanna a morte. Poiché le vestali erano inviolabili, la morte non era data da mano umana, ma mediante segregazione in un luogo sotterraneo. Esso fu spento nel 391 d.C., quando l'imperatore romano Teodosio, dopo l'editto di Tessalonica del 390 d.C., impedì la pratica di riti pagani e impose il rito niceneo come unica religione dell'impero.
[4] L'ossidiana è un vetro vulcanico la cui formazione è dovuta al rapido raffreddamento delle lave. All'interno dei vulcani le temperature e le pressioni sono così elevate da fondere i silicati dando origine alla lava. La lava a contatto dell'aria, si raffredda molto rapidamente dando origine all'ossidiana. Il veloce raffreddamento non consente agli atomi di ordinarsi per formare un cristallo. L'ossidiana è un vetro naturale, del tutto simile a quello di produzione umana. È utilizzata per fabbricare collane preziose e punte delle armi. I principali centri di estrazione delle ossidiane nel bacino del Mar Mediterraneo sono: le isole di Lipari, Pantelleria e della Sardegna (Massiccio del Monte Acri). L'ossidiana si presenta con grande varietà di colori, dovuti alle impurezze presenti al suo interno, e alle condizioni vulcaniche specifiche nelle quali si forma. L'ossidiana del Monte Arci, nera traslucida, è di tipo riolitico; si raccoglie prevalentemente in grossi ciottoli (arnioni), sia in "giacimenti" a cielo aperto che nei greti dei torrenti. Da non dimenticare l'isola di Palmarola (isole ponziane), molto frequentata nel Neolitico e nell'Eneolitico da tribù dedite al commercio di questa materia prima, che introducevano nel continente. Sono stati ritrovati resti di ceramica e alcuni oggetti di ossidiana lavorati di età eneolitica. Plinio la chiamò lapis obsianus o obsidianus in onore di un certo Obsius o Obsidius, che citò la pietra per primo in alcune zone dell'Etiopia. Alcuni ritrovamenti fanno ipotizzare la conoscenza della pietra in epoca antica: gli antichi egizi usavano l'ossidiana per fabbricare scarabei e sigilli mentre in America centrale veniva utilizzato da civiltà precolombiane.

Ho incontrato il demonio

 PROSSIMO ALLE STAMPE In quest'ultimo libro preparatevi a varcare la soglia di un racconto, dove ogni pagina annuncia una lotta eterna, ...